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giovedì 5 febbraio 2015

Sant'Agata, tra fede e tradizione popolare

Sant’Agata il cui nome in greco Agathé, significava buona, fu martirizzata verso la metà del III secolo, alcuni reperti archeologici risalenti a pochi decenni dalla morte, avvenuta secondo la tradizione il 5 febbraio 251, attestano il suo antichissimo culto.
Agata nacque nei primi decenni del III secolo (235?) a Catania.


Anche in Sicilia, come nell’intero Impero Romano, c’erano le persecuzioni contro i Cristiani, e nel II secolo era stata emanata una legge che vietava il culto cristiano.
Nel III secolo, l’editto dell’imperatore Settimio Severo, stabilì che i cristiani potevano essere prima denunciati alle autorità e, dopo, invitati ad abiurare in pubblico la loro nuova fede. Se avessero accettato di ritornare al paganesimo, avrebbero ricevuto l’attestato libellum, che confermava la loro appartenenza alla religione pagana, in caso di rifiuto venivano prima torturati e poi uccisi.
Era un sistema spietato e calcolato, perché l’imperatore tendeva a fare più apostati possibile che martiri, i quali venivano considerati più pericolosi dei cristiani vivi.
Nel 249 l’imperatore Decio, visto il diffondersi del cristianesimo, fu ancora più drastico: tutti i cristiani denunciati o no, dovevano essere ricercati automaticamente dalle autorità locali, arrestati, torturati e, infine, uccisi.
In quel periodo Catania era una città fiorente e benestante, posta in ottima posizione geografica; il suo grande porto, costituiva un vivace punto di scambio commerciale e culturale dell’intero Mediterraneo.
E come per tutte le città dell’Impero Romano, anche Catania aveva un proconsole o governatore, che rappresentava il potere decentrato dell’Impero: Quinziano, uomo brusco, superbo e prepotente. Egli era circondato da una corte numerosa, dai familiari, da un numero enorme di schiavi e dalle guardie imperiali, dimorava nel ricco palazzo Pretorio con annessi altri edifici, in cui si svolgevano tutte le attività pubbliche della città.

Secondo la “Passio Sanctae Agathae” risalente alla seconda metà del V secolo, di cui esistono due traduzioni una latina e due greche, Agata apparteneva ad una ricca e nobile famiglia catanese, il padre Rao e la madre Apolla, proprietari di case e terreni coltivati, sia in città che nei dintorni, essendo cristiani, educarono Agata secondo la loro religione.
Cresciuta nella sua fanciullezza e adolescenza in bellezza, sin da piccola sentì nel suo cuore il desiderio di appartenere totalmente a Cristo e quando ebbe 15 anni, sentì che era giunto il momento di consacrarsi a Dio.
Il Vescovo di Catania accolse la sua richiesta e durante una cerimonia ufficiale chiamata ‘velatio’, le impose il ‘flammeum’, cioè il velo rosso portato dalle vergini consacrate.
Nel mosaico di S. Apollinare Nuovo in Ravenna del VI secolo, è raffigurata con la tunica lunga, dalmatica e stola a tracolla, abbigliamento che lascia supporre che fosse diventata diaconessa.
Il proconsole di Catania Quinziano, ebbe l’occasione di vederla e se ne incapricciò, e in forza dell’editto di persecuzione dell’imperatore Decio, l’accusò di vilipendio della religione di Stato, accusa comune a tutti i cristiani, e ordinò che la catturassero e la conducessero al Palazzo Pretorio.
Qui subentrano varie tradizioni popolari, che indicano Agata che scappa per non farsi arrestare e si rifugia in posti indicati dalla tradizione, in una contrada poco distante da Catania, Galermo, oppure a Malta, oppure a Palermo; purtroppo ella viene catturata e condotta da Quinziano.
Il proconsole quando la vede davanti viene conquistato dalla sua bellezza e una passione ardente s’impadronisce di lui, ma i suoi tentativi di seduzione non vanno in porto, per la resistenza ferma della giovane Agata.
Egli mette in atto un programma di rieducazione della ragazza affidandola ad una cortigiana di facili costumi di nome Afrodisia, affinché la rendesse più disponibile. Trascorse un mese, sottoposta a tentazioni immorali di ogni genere, con festini, divertimenti osceni, banchetti; ma lei resistette indomita nel proteggere la sua verginità consacrata al suo Sposo celeste, al quale volle rimanere fedele ad ogni costo.
Sconfitta e delusa, Afrodisia riconsegna a Quinziano Agata dicendo: «Ha la testa più dura della lava dell’Etna». Furioso, il proconsole imbastì un processo contro di lei, che si presentò vestita da schiava come usavano le vergini consacrate a Dio; «Se sei libera e nobile» le obiettò il proconsole, «perché ti comporti da schiava?» e lei risponde «Perché la nobiltà suprema consiste nell’essere schiavi del Cristo».
Il giorno successivo altro interrogatorio accompagnato da torture. Ad Agata vengono stirate le membra, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate, ma ogni tormento invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuova forza, allora Quinziano al colmo del furore le fece strappare o tagliare i seni con enormi tenaglie.

Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio.
Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare S. Pietro Apostolo, accompagnato da un bambino che porta una lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: «Mi ha fatto guarire Cristo». Ormai Agata costituiva una sconfitta bruciante per Quinziano, che non poteva sopportare oltre, intanto il suo amore si era tramutato in odio e allora ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Durante l’esecuzione di Agata, spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine e il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.

Dopo un anno esatto, il 5 febbraio 252, una violenta eruzione dell’Etna minacciava Catania, molti cristiani e cittadini anche pagani corsero al suo sepolcro, presero il prodigioso velo che la ricopriva e lo opposero alla lava di fuoco che si arrestò; da allora S. Agata divenne non soltanto la patrona di Catania, ma la protettrice contro le eruzioni vulcaniche e contro gli incendi.
Nel 1886 il suo velo fu portato in processione dall’arcivescovo di Catania quando, durante una delle ricorrenti eruzioni dell’Etna, minacciava la cittadina di Nicolosi, che venne risparmiata dalla distruzione.
Nel 1040 le reliquie della Santa furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa Santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto ad Aci Castello, tutti i catanesi risvegliatisi e rivestitisi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santaituzza”.

Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della Santa, richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside, per questo S. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre, anche se era appena una quindicenne.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di S. Agata sui costruttori di campane, perché nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna.
Le sue reliquie sono conservate nel Duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Sant'Aituzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per S. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo, essa era contesa come appartenenza anche da Palermo, la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la Santa, fu soppiantato da quello per S. Rosalia.
Anche a Roma fu molto venerata, Papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593.
Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto, le feste sono due il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della Santa, custodito nel Duomo.
Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’ fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di S. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.


Chiara D'Amico

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